IL BLOG DI SERGIO VIVI



giovedì 9 aprile 2009

25 aprile: la mia Festa della Liberazione

Nell’autunno del 1944 Bologna fu considerata città bianca o città aperta.
Significava che, tramite la Croce Rossa Internazionale, gli Alleati s’impegnavano a non bombardare più il centro della città. In realtà, questa convenzione non fu mai concordata ufficialmente. Ci fu soltanto un mezzo impegno del maresciallo Kesserling a non coinvolgere la città in operazioni belliche. Di fatto, dopo il 12 ottobre, giorno del più lungo e massiccio bombardamento aereo, quando fu rasa al suolo anche la Ducati, il centro della città fu risparmiato. Con la conseguenza che tutti quelli che n’avevano una possibilità “sfollarono” dentro le mura.


Ai primi di novembre, anche noi con la mamma, caricammo quattro materassi e qualche coperta sopra un barroccino, io davanti a tirare, mio fratello più piccolo dietro a spingere, e ci avviammo verso il centro. A porta Saragozza superammo senza troppi problemi lo sbarramento della Feldgendarmerie. Mia madre mostrò un lasciapassare che si era fatta prestare da una collega. Il soldato la guardò un po’ dubbioso, poi fece cenno di proseguire.

Ci sistemammo in una stanza, al secondo piano, del palazzo dell’INA, in via de’ Pignattari sul fianco destro di San Petronio. Al piano terreno c’era l’immenso salone di ricevimento per il pubblico della Confederazione Nazionale dei Sindacati, dove mia madre era impiegata. Ai piani superiori gli uffici della direzione. Assieme a noi avevano trovato ricovero altre due famiglie.
Tutte le case del centro si riempirono fino all’inverosimile. Nei piani terreni, perfino in certe cantine, furono alloggiate anche le mucche. Divenne possibile trovare qualche mezzo litro di latte fresco “a prezzi di favore”.
«All'interno dell'antica cerchia muraria si riversa[rono], negli ultimi mesi di guerra, più di 500.000 persone, cittadini in precedenza sfollati, abitanti del contado bolognese e famiglie di profughi delle regioni del sud liberate».

Quell’anno “frequentavo” la prima media, nel senso che andavamo a lezione soltanto una mattina e un pomeriggio dell’ultima settimana del mese (in aule ricavate nel palazzo d’angolo tra via Farini e piazza de’ Calderini). Era inevitabile che ci riempissero di compiti: temi, esercizi di matematica, declinazioni di rosa, rosae, poesie e capitoli di storia e geografia da mandare a memoria. Io, sconsideratamente, iniziavo a farli soltanto il giorno prima. Preferivo girovagare per Bologna, che imparai a conoscere come le mie tasche. Gli insegnati furono magnanimi: mi mandarono ad ottobre solo in italiano, latino e matematica. L’estate non ebbi bisogno di studiare, perché mia madre aveva già deciso che era meglio per me ripetere l’anno. Fossimo stati ai nostri giorni, magari iscritti alle Longhena, saremmo stati tutti promossi colla media del dieci.

Fu così che, trascorso l’inverno, arrivò l’alba del 21 aprile 1945.
Quella mattina, la mamma ci svegliò, attorno alle cinque e mezza, al grido di: «Arrivano gli americani!».
Ci mettemmo di vedetta sul minuscolo terrazzino della camera. Si vedeva uno scorcio di piazza Vittorio Emanuele II (così allora si chiamava piazza Maggiore) tra il palazzo dei Notai e la Basilica.
La piazza era deserta, il silenzio era assoluto. Dopo una decina di minuti, vidi tre civili di mezza età attraversare con passo marziale quel tratto di piazza. Provenivano dai portici del Pavaglione, quello di mezzo sorreggeva un gagliardetto, ed andavano a prendere possesso di palazzo d’Accursio. Temetti per loro. Fino il giorno prima erano braccati dai tedeschi e dai repubblichini, possibile che questi se ne fossero tutti andati?

La liberazione di Bologna, per me, resta legata a quella scena, quasi spettrale. Non ho mai saputo chi fossero quei tre uomini. Certamente membri del Comitato Nazionale di Liberazione.
Dopo anni, tramite internet, posso immaginare che fossero il comunista Giuseppe Dozza già designato Sindaco, il liberale Antonio Zoccoli presidente regionale del CLN, e il nuovo prefetto Gianguido Borghese. Cioè le tre personalità che si affacceranno, nella tarda mattinata, dal balcone di palazzo d'Accursio. O forse No.

Intorno alle sei fecero capolino, dietro le colonne del palazzo del Podestà, alcuni soldati con l'elmetto inglese. Erano i polacchi del generale Anders. Verso le nove -ero sceso in strada- da via dell’Archiginnasio vidi entrare «avanguardie dei gruppi di combattimento italiani Legnano, Friuli, Folgore e parte della brigata partigiana Maiella, aggregata all'VIII Armata».
Alle dieci l’apoteosi degli americani tra un tripudio di folla. La piazza si riempì di carri armati.
Chiesi ed ottenni da un soldato carrista una barretta di cioccolato. Qualche giorno dopo assaggiai la prima banana della mia vita: era senza succo. La prima delusione della libertà.

Tre, quattro giorni dopo, forse proprio il 25, facemmo frettolosamente ritorno nella nostra casa in periferia. C’era il rischio che qualche sinistrato la occupasse: ognuno per sé e Dio per tutti.
La Confederazione dei Sindacati fu sciolta, la mamma rimase disoccupata. La preoccupazione fu di breve durata, il personale fu “provvisoriamente” inserito nel nuovo ufficio del Lavoro. Fortunatamente non c’è nulla di più definitivo del provvisorio.


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Il punto di vista, magari irrilevante e sbagliato, di un cittadino qualunque, confidente nella libertà, detentore saltuario della sovranità, indotto a cederla, nell’occasione, a rappresentanti per niente fidati.

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