IL BLOG DI SERGIO VIVI



mercoledì 29 settembre 2010

L'Italia futura - 3

Dobbiamo proprio lasciare che il Paese rischi il default a causa del debito pubblico?
È di questi giorni la notizia della Banca d’Italia che il debito ha toccato i 1.838 miliardi di euro. Vale a dire l’importo di diecimila jackpots del Superenalotto da 183 milioni di euro.
E dire che basterebbe un taglio di cinque punti di PIL annuo per dimezzare, nell’arco di una decina d’anni, il rapporto Debito/Pil e rientrare almeno nel 60% fissato dal Trattato di Maastricht.
Non essendo ritenuti efficaci i tagli lineari, è giocoforza ricorrere al taglio di un’unica voce della spesa pubblica. Una possibilità consisterebbe nel riformare radicalmente il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), abolendone il carattere “universalistico” ed introducendo l’assicurazione sanitaria obbligatoria.


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Prima di dire come, vediamo che opinione si fanno i cittadini che vengono a contatto con il SSN, riportando alcuni episodi recenti ma che ricorrono regolarmente durante tutto l’anno in ogni regione italiana.

Prima lettera



Non sia mai che i cittadini possano percepire il sistema sanitario come un inganno. Un giorno dopo la pubblicazione di questa lettera, sullo stesso giornale è apparsa la notizia che alla signora era stato trovato il posto. Miracoli delle “disposizioni dall’alto”, come suole dirsi: si trova sempre una struttura che, avendo programmato dieci ecografie per mattina, può fare anche l’undicesima. L’assessore (il politico) chiama il direttore (da lui nominato), il direttore chiama il “primario”, questi da disposizioni ai sottoposti che, sebbene oberati di lavoro, non possono fare altro che obbedire (magari mugugnando). Merito anche della signora che ha inviato il suo reclamo al giornale giusto.
Per uno che reclama, ci sono altri cento che “non capiscono ma si adeguano”. Se tutti protestassero, i politici si troverebbero «in brache di tela» e l’inganno diventerebbe più palese.

Seconda lettera



L’estensore di questa lettera avanza il sospetto che quella delle “agende chiuse” sia un espediente voluto per favorire altri interessi. Purtroppo non è così. Dalle normali prestazioni al pronto soccorso è tutto un disastro: «Sanità, le liste d’attesa restano eterne. Tempi biblici per visite e tac» (titolo su Repubblica Bologna del 15 gennaio 2010); «Pronto soccorso ortopedico in tilt» (titolo su Repubblica Bologna del 27 settembre 2009); «La protesta degli infermieri al Maggiore. Al pronto soccorso lavoro estenuante» (titolo su Repubblica Bologna del 29 settembre 2009). Siamo di fronte ad una reale carenza di personale (e di mezzi) che i sindacati di categoria non si stancano più di segnalare.

Ecco l’ultima segnalazione

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Entrambi gli estensori delle prime lettere pongono l’accento su due aspetti.
I costi ed il diritto.
«Io pago già sotto forma di tasse proprio per poter avere dei servizi. Per che cosa sto pagando invece?».
«… la salute è un diritto e visto le tasse che si pagano è assurdo pagare due volte».

I COSTI
Il grosso del finanziamento del SSN deriva dall’Irap, dall’Addizionale regionale Irpef e dal Fondo per fabbisogno sanitario ex decreto legislativo 56/2000 (Federalismo fiscale: Iva e Accise).
In più, ogni ASL incassa i ticket normali delle visite e degli esami e quelli maggiorati di coloro che ricorrono all’attività libera professionale. Inoltre, i pazienti che si avvalgono dell’ALP per un’operazione chirurgica, oltre all’equipe medica, all’affitto della camera ed agli esami pre-operatori, pagano l’uso della sala operatoria, della strumentazione e dei medicinali (sono le voci DRG delle fatture – nota 1). Evidentemente tutti questi soldi non bastano per fornire un servizio efficiente ed efficace per i pazienti normali. Bisognerebbe alzare la pressione fiscale dall’attuale 43% a circa il 50% (come avviene in Danimarca e Svezia) e forse non basterebbe. In altre parole, per una prestazione in tempi brevi si finisce per pagare il suo costo reale, mentre per la prestazione con la lista d’attesa si paga un prezzo politico più basso.


I DIRITTI
Ci sono due tipi di diritti.
La vita, la libertà, la proprietà, la libertà d’opinione ed altri, la cui osservanza si realizza semplicemente senza che nessuno intervenga sono detti diritti negativi, od anche libertà negative, od anche libertà da … interferenze dello stato. Si considerano validi in ogni tempo ed in ogni luogo.
La sanità e, in genere, i diritti garantiti dallo stato sociale (il Welfare), la cui attuazione richiede risorse, sono detti diritti positivi, od anche libertà positive, od anche liberta di … avere qualcosa. Dipendono dalle circostanze, dai luoghi e, quando attuati, possono esserlo con diverso grado.


Come abbiamo visto dalle lettere il nostro SSN non soddisfa né i pazienti, né gli operatori
Prendiamo, per esempio, un uomo di 60 anni che, a causa della prostata, comincia a svegliarsi poco dopo essersi addormentato. Va in bagno, torna a letto ma, dopo dieci minuti, ha ancora bisogno e, poiché la cosa si ripete, non riesce a chiudere occhio. Il mattino si alza che è intronato e va a lavorare stanco morto. Questo per tre notti ogni quattro. L’uomo si rivolge all’Ospedale Maggiore e si sente dire: «la mettiamo in lista, ci vorrà un anno, prima dell’intervento». Prendiamo la legge che eleva l’età pensionabile a 65 anni. Mettiamo che l’uomo sia un autista d’autobus, o un manovratore di treni, od un operatore di una pressa. Che cosa succede se causa un incidente? Ovvio, gli fanno il test dell’alcol e della droga per vedere se è colpevole.

Quell’uomo che si reputava fortunato perché non pagava il medico e lo sciroppo della tosse, dopo esperienze del genere (l’attesa per l’intervento), comincia a vedere il SSN con occhi diversi.
È il caso di continuare a pagare delle tasse per un servizio comunemente non disponibile?
Se le prestazioni non sono disponibili nel momento in cui ti servono, questo fa sì che il sistema sanitario diventa inaffidabile e quello che passa per un diritto positivo si tramuta in un diritto “negato”. Questo è un primo motivo per riformare radicalmente il SSN.

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Le cose potrebbero migliorare soltanto con un aumento delle risorse umane (e strumentali).
Invece cosa succede?
Siccome il Welfare attuale non ha i soldi per pagare tutti i dottori che sarebbero necessari ecco che l’accesso alla facoltà di medicina è programmato «tenendo anche conto del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo» (Legge n. 264 del 2 agosto 1999 del I governo D’Alema). In barba all’articolo 4 della Costituzione che, al secondo capoverso, recita: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Con la programmazione, non c’è più universalismo che tenga. Che cosa è servito, negli anni passati, abolire la “scuola di classe”, istituire la scuola media unica e consentire l’accesso a tutte le facoltà universitarie a chiunque avesse un diploma di scuola secondaria per, poi, chiudere la porta alla maggioranza degli aspiranti con un marchingegno cretino?

Chissà se Albert Schweitzer e Gino Strada sarebbero diventati dottori se avessero dovuto superare la stupida lotteria dei quiz.
Anche il diritto positivo allo studio (della medicina) diventa un diritto “negato”.

Il mondo è bello perché è vario. Mentre la Cina assomiglia sempre più agli Stati Uniti e perfino Cuba (buon’ultima) imbocca questa strada, l’Europa privilegia il modello dell’ex Unione Sovietica, dalla quale sembra avere importato interi container di “socialismo reale”.

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C’e un secondo motivo per riformare radicalmente il SSN. Il welfare degli stati europei è troppo generoso, mentre molti altri paesi ne sono privi del tutto. Lo ha spiegato bene, qualche settimana fa, Eugenio Scalfari. Ricorrendo alla legge fisica dei vasi comunicanti ha esposto, nella prima parte di un editoriale, un teorema in base al quale diventa inevitabile che i paesi, che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, rinuncino a dei privilegi in favore dei paesi più svantaggiati. Quindi occorre fare delle scelte.
Preferite perdere la pensione oppure l’assistenza sanitaria?
Preferite continuare a sognare e rischiare di perderle entrambe?
Perché è questo che intende dire Scalfari, se le sue parole hanno un senso.

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Il SSN è ormai uno strumento logoro, inefficiente ed inaffidabile.
Non soltanto in Emilia Romagna. Abbiamo letto tutti delle truffe perpetrate da parte di case di cura private ai danni dei pazienti e della regione Lombardia. Per limitarci ai due modelli di sanità considerati i migliori d’Italia.
Il SSN serve ormai soltanto alla casta burocratica che lo controlla, come ci ricorda il seguente articolo (del quale mostriamo solo il titolo per via della “riproduzione riservata”), dove si dà notizia dello scontro in atto per le nomine dei direttori generali di sei ospedali ed Ausl in Emilia Romagna.



Alla fine dell’anno scade anche il mandato dei 45 direttori sanitari di Asl e aziende ospedaliere della Lombardia. Si prevedono scambi di cortesia fra la Lega e Comunione e Liberazione.

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Un ulteriore motivo per riformare radicalmente il SSN deriva dal corollario del teorema di Scalfari (seconda parte dell’editoriale). «Anche all’interno di un singolo paese deve valere la legge dei vasi comunicanti». Non possono più esserci bicchieri quasi pieni ed altri quasi vuoti, ma tutti devono raggiungere lo stesso livello. Non c’è ragione che il proprietario di un’auto da 50.000 euro, oppure la signora in grado di acquistare una borsetta da 4.500 euro, ottengano gratis lo sciroppo della tosse o l’aspirina.
David Cameron, impegnato in una rigorosa revisione della spesa pubblica del Regno Unito, in un suo recente articolo su Repubblica, ha fatto l’esempio dei risparmi ottenuti da una linea aerea sopprimendo un’oliva dall’aperitivo offerto ai passeggeri.
Quante “olive” si potrebbero risparmiare nella sanità italiana, se si abolisse il carattere universalistico del SSN?

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Per abbattere il debito pubblico si dovrebbe:

1 - Smantellare il carattere universalistico del sistema sanitario, sciogliendo le USL, le ASL, le AUSL (ed anche i CUP).
Ogni ospedale ritorni ad essere un’azienda autonoma amministrata da una decina d’impiegati.

2 – Istituire un sistema d’assicurazione sanitaria obbligatoria.
Essendo l’attuale spesa sanitaria il 6,8% del Pil, l’obiettivo è di risparmiarne il 5% e di utilizzare il rimanente 1,8% per provvedere –tramite i comuni che, col federalismo, disporranno anche dell’imposizione autonoma delle tasse- ai malati cronici, agli anziani indigenti ed alle fasce di reddito più basse.


3 – A parità d’imposizione fiscale, lo Stato trasferirà il 73% degli attuali fondi di finanziamento del SSN alla Banca d’Italia, che li utilizzerà per rastrellare titoli di stato sul mercato e che distruggerà subito.
Così, per tanti anni fintanto che il debito sarà sceso al 50% del PIL. Poi, si vedrà il da farsi.


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In questi giorni l’edizione locale del Corriere.it ha proposto ai lettori il tema:
«Bologna: cosa salvare? E cosa buttare?»
Si potrebbe radere al suolo Palazzo d’Accursio divenuto, dopo l’età aurea dei Glossatori, simbolo ormai vuoto d’antichi e vecchi conformismi.
Al suo posto si potrebbero edificare due torri cilindriche, di vetro e cemento, alte come San Petronio, che si compenetrino leggermente, sulle cui pareti si specchierebbero la basilica, il Palazzo del Podestà e la statua del Nettuno, creando effetti suggestivi.
Et voilà il nuovo ospedale “Le Gocce Maggiori”.
Ai primi piani di una delle torri troverebbe posto, opportunamente insonorizzato, un auditorium per rappresentazioni teatrali, musicali e per convegni e congressi. In modo da rallegrare un po’ l’ambiente. Bologna, pur sempre turrita, diventerebbe meno fosca ed il centro riprenderebbe nuova vita.

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Al bando le divagazioni futuriste.
La riforma del SSN avrebbe anche l’immenso vantaggio di togliere di mezzo il grosso macigno rappresentato dalla determinazione dei costi standard nella sanità, e spianare la strada ad un federalismo meno costoso. Non sarebbe in ogni modo, per i cittadini, un’operazione a costo zero, ma piuttosto onerosa almeno per i primi anni.
Resta il fatto che, soltanto dopo che il debito pubblico sarà abbattuto, si potrà cominciare a parlare d’Italia futura.


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NOTA 1)
DRG acronimo di “Diagnosis-Related Group” -equivalente in italiano”Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi (ROD) - è lo strumento che serve a classificare i ricoveri ospedalieri ed a calcolare le tariffe con le quali sono retribuiti gli ospedali, per l’attività di cura. Introdotto in Italia nel 1995, il sistema è stato creato dal prof. Fetter dell’università di Yale nel 1983.
E’ un sistema isorisorse: descrive l’assistenza al paziente partendo dal principio che malattie simili, in reparti ospedalieri simili, comportano orientativamente lo stesso consumo di risorse materiali e umane, alle quali si fa corrispondere una data tariffa calcolata.
In pratica, sono i costi standard nella sanità.

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I costi della sanità


martedì 21 settembre 2010

La tracolla ed il tracollo

La giovane ed elegante signora, appena uscita dal negozio, ancora soprappensiero per via delle doppie nappine, incespicò e cadde pesantemente fratturandosi una piccola, maledetta, vertebra.
Fattasi portare al pronto soccorso, alla vista dei numerosi pazienti in attesa, pensò tra sé e sé: «Ohibò! Ma quante tracolle hanno venduto stamattina?»


venerdì 10 settembre 2010

sabato 4 settembre 2010

L'Italia futura - 2

L’argomento più consistente addotto, nei giorni scorsi, contro il ritorno alle urne in autunno è che, in quei mesi, sono in scadenza circa 80 miliardi di titoli a lungo termine ed altri 150 nel 2011 (Alessandro Penati su Repubblica del 21 agosto) che il Tesoro dovrà rifinanziare. In caso di crisi di governo, la speculazione internazionale ci farebbe a pezzi, assicurano gli esperti. Anche perché è aumentata la quota del debito pubblico allocata all’estero: a partire dal 2005, i NON residenti detengono oltre il 50% del debito (mentre nel 1998 i residenti in Italia ne detenevano ancora il 71% e nel 1991 addirittura il 94%).

Questo motivo richiama all’attenzione il più grave problema del Paese: l’enorme debito pubblico accumulato negli anni 80 e 90, e accresciuto, nell’ultimo decennio, anche a causa della crisi economica globale. Siamo arrivati attorno a 1.820 miliardi di euro di debito.

Una ricostruzione autorevole della serie storica del debito (in percentuale del PIL) è disponibile in questo studio, dell'ottobre 2008, sul sito della Banca d’Italia.
La figura 5 «mostra che l’Italia è stata ed è un paese con un debito pubblico elevato. Gli anni in cui il debito è stato superiore al prodotto non sono casi isolati. Su 147 osservazioni l’incidenza del debito delle Amministrazioni pubbliche sul PIL è stata superiore al 100 per cento in 53 anni; ha superato il 60 per cento in 108 casi. Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, caratterizzato dal miracolo economico e da un peso del debito in media ben al di sotto del 35 per cento, appare infatti come un’eccezione».




«La scomposizione del debito fra interno ed estero aiuta a chiarire la dinamica sottostante i due rilevanti episodi di repentino aggiustamento seguiti ai conflitti mondiali (fig. 5). Mentre nel caso degli anni che seguirono la prima guerra mondiale, il venir meno del debito estero prebellico (che fu in parte significativa condonato - nel 1925 i debiti nei confronti del Governo degli Stati Uniti furono ridotti di circa i 4/5, nota 45-) spiega in parte rilevante il crollo osservato negli anni venti e nei primi anni trenta, la drastica riduzione del peso del debito (quasi integralmente interno) realizzata alla fine della seconda guerra mondiale è invece attribuibile principalmente all’elevatissima inflazione».

La fase di forte accumulazione di debito pubblico che inizia intorno al 1964 e, senza arrestarsi, continua fino a raggiungere il massimo nel 1994 è dovuta principalmente alla creazione dello Stato sociale per opera, prima, dei governi quadripartito e, successivamente, di quelli del centrosinistra.

Sintomatica questa confidenza del Presidente emerito Francesco Cossiga, ricordata nei giorni delle sue esequie: «In nome della carità e della solidarietà ho sbagliato. Credevo che la politica economica dello stato dovesse ricalcare le linee della San Vincenzo. Abbiamo scambiato la solidarietà con lo spreco. La solidarietà con l'inefficienza. Pensavamo che i soldi non sarebbero finiti mai» (Ceccio da Chiaramonti, L’eterno provocatore, Gian Antonio Stella, 18 agosto 2010 Corriere della Sera.it).

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La questione del welfare va vista nell’ottica della classica contrapposizione destra – sinistra (una diade che tuttora sopravvive, come ha spiegato Norberto Bobbio in “Destra e Sinistra”, cap. III).
Compito di un governo di sinistra è di costruire una società più giusta attraverso il potenziamento dei servizi sociali, la tutela dei lavoratori, il sostegno alle fasce più deboli e la tutela dei diritti fondamentali. Quindi più tasse al fine di assicurare più servizi alla collettività e conseguentemente più uffici e più personale pubblico. Il modello è quello "universalistico". I diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza.
Un governo di destra, invece, si propone d’intervenire il meno possibile nell’economia e nella società. Sostiene la teoria dello stato minimale: poche tasse, servizi sociali ridotti all’osso, contratti di lavoro meno vincolanti per le imprese.
Il modello viene spesso definito “residuale”, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior parte della società, i servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi.

Nessun dubbio che, di fronte alla domanda su quale sistema preferiscano, la maggior parte delle persone opti per la prima soluzione. Salvo rendersi conto, una volta di fronte alle inefficienze, che non è tutto oro quello che i politici cercano di far luccicare. Occorrerebbero sempre più risorse, quindi più tasse.
Nella storia di un popolo si alternano periodi (che possono durare anche molti anni) nei quali predomina la politica della spesa pubblica, ed altri in cui occorre mettere un freno perché, nonostante le alte tasse, il sistema è diventato insostenibile oltre che inefficace ed inefficiente. Quello attuale, è uno di questi. Tutti i commentatori politici riconoscono che non possiamo più permetterci questi livelli di welfare: è giunto il momento di sottoporre lo stato sociale a dieta forzata. Se non altro, per il doveroso rispetto del patto di solidarietà tra le generazioni.

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A chi aspetta il compito di abbattere il debito pubblico?

A chi governa, ovviamente.
La sinistra ha le sue ricette. Si può ridurre il debito senza minare lo stato sociale. L’elenco degli strumenti è nutrito: eliminazione degli sprechi, lotta all’evasione fiscale, tasse più alte per i ricchi, diminuzione dei costi della politica e, dulcis in fundo, praticare la virtù dell’avanzo primario.
Tutti provvedimenti che, presi uno per volta, non bastano. Molti dei quali con risultati non prevedibili né misurabili. Da perseguire in ogni caso allo scopo di abbattere il deficit (impresa più facile), di rilanciare l’economia e lo sviluppo e, contestualmente, diminuire le tasse per le persone e le imprese.
Per raggiungere l’obiettivo –senza praticare tagli- il centrosinistra dovrebbe vincere le elezioni per i prossimi settant’anni ma non è detto che, prima, lo stato sociale italiano imploda come l’Urss di Breznev. Le cause, naturalmente, non sarebbero imputabili al centrosinistra che, anzi, troverebbe sicuramente il modo per menare vanto di avere evitato “il peggio”.

Il compito si addice di più ad un governo di destra. Ma quale destra?
Riesce difficile paragonare il governo Berlusconi (con il Pdl dominato da ex socialisti) al nuovo governo lib-con di David Cameron. Questi, per ridurre l’enorme indebitamento del Regno Unito, ha già messo in atto una rigorosa analisi della spesa pubblica in tutti i suoi dettagli (Spending Review) e sta operando una serie di tagli (soprattutto tra quegli eccessi di spesa ormai dati per scontati come se fossero a tutti gli effetti parte integrante dell’organizzazione statale) con lo scopo primario di dare maggiore potere e controllo ad ogni singolo cittadino sulla propria vita. «Il governo lib-con punta poi a ridisegnare, con i servizi, anche il sistema di welfare individuando nei privati e nelle associazioni i soggetti adatti ad occuparsi, oltre che di istruzione ed ospedali anche di funzioni eminentemente sociali, come ad esempio il ri-collocamento dei disoccupati ed il recupero dello svantaggio sociale». (Simona Bonfante su Libertiamo, 20 agosto 2010)

Il centrodestra italiano minimizza e professa ottimismo. I mercati sanno che i creditori dello Stato italiano sono per il 50% (il bicchiere mezzo pieno) i suoi cittadini e che una considerevole porzione degli interessi pagati dallo Stato resta in famiglia. Sanno infine che in Italia, a confronto di quanto accade in altri Paesi, la percentuale del risparmio è elevata. Le periodiche emissioni di bond vengono bene accolte dai mercati e la domanda è generalmente superiore all’offerta. A ridurre il debito, dicono, ci penseremo quando il Paese ricomincerà a crescere.

Per anni, la classe politica –tutta- non ha fatto altro che rimuovere l’incubo del debito. Continua a starsene cinicamente seduta sulla riva del fiume, sperando che qualcuno arrivi a condonarci parte del debito come fece il governo americano nel primo dopoguerra, oppure nell’attesa che nella zona euro (e negli Usa) arrivi una provvidenziale inflazione, tassa certamente iniqua ma in buona parte «invisibile » e in larga misura pagata dai detentori esteri. Inflazione che non potrebbe essere strisciante anno dopo anno, ma che dovrebbe avvenire di colpo ed essere elevatissima, per produrre l’effetto desiderato di far crollare il debito. Sempre ammesso che gli investitori esteri, per i quali rimaniamo “sorvegliati speciali”, stiano a guardare. Si rischia che, prima dell’inflazione, arrivi il default del Paese. Soprattutto in ragione dell’esposizione verso l’estero, il debito pubblico rimane una spada di Damocle, che blocca lo sviluppo e che sta già ricadendo sui giovani nati dopo il 1978.

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Un’opportunità potrebbe essere rappresentata dalle novità che stanno accadendo in questi giorni, con l’eventuale nascita del partito di Gianfranco Fini, visto dai suoi sostenitori come il « tentativo di elaborare un polo “nuovo” (più che terzo) che si prefigga di contendere al “primo” l’appalto della rappresentanza liberal-democratica dell’elettorato. Un modello Cameron-Clegg, per intenderci». (Simona Bonfante su Libertiamo, 16 agosto 2010)

Mentre il suo esponente più “liberal” scrive: «Alla fine del percorso, Fini oggi sostiene – proprio sui temi “sensibili” dei diritti, dell’immigrazione, della bio-politica e dell’identità civile – posizioni più vicine di quelle berlusconiane al mainstream liberal-conservatore europeo.
…………..
Perfino sui temi economici – che rappresentavano il “cuore” della promessa berlusconiana – Fini raggiunge una posizione mediana tra la difesa dell’interesse e della coesione nazionale e la necessaria modernizzazione del modello economico-sociale di un paese che non cresce quanto i suoi concorrenti. Nel frattempo Berlusconi perde la gran parte della sua forza “rivoluzionaria”, in un traccheggio sparagnino, ma diffidente delle vere riforme (quelle che potrebbero costare consenso, ma dare fiato ad un paese in affanno).
Oggi è il PdL di Berlusconi, attraverso il legame a doppio filo elettorale e soprattutto politico con Bossi, ad essere vicino al “Dio, Patria e famiglia” del reazionario Le Pen e delle destre anti-liberali. Fini invece ha oggi – proprio sui temi che lo renderebbero “estraneo” al PdL – idee e proposte più consonanti con quelle di Cameron, Merkel, Rajoy o Sarkozy, cioè di quella destra popolare e conservatrice che ‘contiene’ i liberali o governa con essi». (Della Vedova su Libertiamo, 25 agosto 2010)

Per la maggioranza dei commentatori, però, contro la possibilità di fare una politica di destra moderna e liberale, giocherebbe la necessità di Fini di raccogliere voti. Impresa difficile e possibile solo al Sud, a patto di permettere a questa parte d’Italia di perpetuare i propri vizi, si tratti dei costi della politica locale o dei dissesti della sanità regionale. La divisione non è tra Destra e Sinistra, ma tra Nord e Sud. Tra due concezioni diverse del Federalismo che, se non trovano una sintesi, mettono a rischio l’unità della Nazione.

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Pare che, in nome dell’unità nazionale, dovremo tenerci il debito.
È possibile che non esista un punto d’equilibrio per assicurare efficienza e tutelare l’unità nazionale? Dobbiamo proprio lasciare che il Paese rischi il default?

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Il punto di vista, magari irrilevante e sbagliato, di un cittadino qualunque, confidente nella libertà, detentore saltuario della sovranità, indotto a cederla, nell’occasione, a rappresentanti per niente fidati.

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