IL BLOG DI SERGIO VIVI



martedì 1 maggio 2007

Le primarie "embedded"

Primarie: una testa, un voto
Elezioni: un candidato, un partito

Il tema delle primarie ha conquistato, ormai, un posto di rilievo nel dibattito interno al centrosinistra. Ma è diventato da subito anche un motivo di divisione.
Così ad Arturo Parisi che, nell’ottobre del 2005, sosteneva che «le primarie hanno fatto nascere la più grande organizzazione politica d’Europa», Franco Marini replicava (sulla Stampa del 22 novembre 2005): «Fare un’affermazione del genere indica un vizio, forse non voluto: l’accettazione di una visione plebiscitaria della politica. C’è il grande evento, si vota per il leader, si cancellano i partiti, si instaura un rapporto diretto con il popolo. Ma questo è proprio quello che aborriamo, la personalizzazione della politica. Questo è berlusconismo ... Noi non dobbiamo commettere l’errore di eliminare le strutture portanti della democrazia (i partiti). Dobbiamo invece coniugare la vita di queste strutture con le novità e l’apertura verso i nuovi gruppi dirigenti».

In una lettera, inviata alla Repubblica il 22 aprile 2007, Romano Prodi ritiene fondamentale per il successo del Partito democratico affrontare e consolidare alcuni punti programmatici a cui guardare come a delle linee guida essenziali. Dopo “il bisogno di Europa che il Paese ha”, mette al secondo posto il tema delle “primarie”.

«Inoltre, senza evocare ancora una volta “lo spirito delle primarie”, dobbiamo però trarre da quella esperienza un grande insegnamento, un segnale che quella domenica di ottobre ci è arrivato chiaro e forte e che non possiamo perdere: la politica del nuovo secolo è partecipazione ed ha successo solo in quanto è partecipata. Dobbiamo quindi inventare nuovi modi per allargare il coinvolgimento dei cittadini, in una dialettica dell’inclusione e della condivisione tale da fidelizzare il loro consenso».

Nell’ottobre del 2005, commentando le primarie, Prodi aveva detto:

«… Più di tre milioni di italiani ci hanno detto che vogliono contare di più per decidere il loro futuro. Ci hanno detto che hanno speranza e vogliono cambiare. La democrazia si difende con la democrazia e noi l'abbiamo fatto con le primarie. Insieme dobbiamo dare gambe e cuore a questa speranza …».

Cosa si aspetta, allora, a dare gambe alla speranza ed a inventare nuovi modi?
Fatti, non parole.
Ma non per fidelizzare il consenso al proprio partito, ma per dare a tutti i cittadini la possibilità di essere eletti, ed agli elettori la possibilità di scegliere i candidati col voto di preferenza.

La contraddizione più stridente dell’attuale sistema politico è, infatti, il clamore che si fa sul bisogno di primarie, nel deserto di proposte per il ritorno al voto di preferenza.

Commentando, giovedì 5 aprile 2007 su Avvenire, la “bozza Chiti” e la “bozza Calderoli”, lo spiega bene Marco Tarquinio:
«…C'è però anche un'altra coincidenza tra quelle due ipotesi di lavoro, che dovrebbero correggere le storture delle norme attuali. E cioè la conferma dell'abolizione totale del voto di preferenza. Una coincidenza tanto impressionante quanto incredibilmente sottaciuta. Evidentemente l'impossibilità per gli elettori di intervenire sulle liste dei candidati, esprimendo la propria scelta, non è considerata dai "riformatori" di entrambi i poli un problema da risolvere. O, forse, è ritenuta addirittura una conquista da difendere. E, in effetti, se proviamo a metterci dalla parte di chi le liste dei candidati le compila, è piuttosto facile arrivare alla conclusione che la rimozione del voto di preferenza ha rappresentato per i capipartito una svolta persino entusiasmante. Quel potere democratico di selezione della classe dirigente che dovrebbe spettare, in percentuali quasi analoghe, a forze politiche (che elaborano e propongono) ed elettori (che scelgono) ha finito, passo dopo passo, per essere trasferito quasi interamente ai vertici dei partiti: ai cittadini solo l'indicazione di uno dei simboli in lizza; ai titolari dei simboli la decisione effettiva sugli eletti».



Nelle democrazie moderne non c’è più una netta divisione tra potere legislativo e potere esecutivo.
L’articolo 71 della nostra Costituzione prevede che l’iniziativa delle leggi appartenga nell’ordine al Governo, a ciascun membro delle Camere … ed al popolo. L’approvazione delle leggi spetta comunque al Parlamento (art.70). Perché il dibattito sulla formazione delle leggi sia democratico occorre che tutte le voci siano presenti nel Parlamento.
Anche se, «come mostrano gli studi sull’opinione pubblica, i segmenti elettorali veramente
diversi fra loro non sono più di sei o sette», è difficile trovare tra i candidati proposti dai partiti quello che rappresenta il proprio “segmento”.
Perché si dovrebbe «mettere uno stop alla dinamica della frammentazione in corso»?
La frammentazione può essere svantaggiosa per la governabilità, ma è una risorsa per la discussione.

Occorre, pertanto, liberalizzare la scelta degli elettori, rendendola la massima possibile.
Tutti dovrebbero avere la possibilità di candidarsi, anche al di fuori dei partiti, e senza dover raccogliere firme di presentazione. L’ideale sarebbe poter scegliere liberamente, esprimendo alcune preferenze, dall’intero registro degli elettori.
La sintesi delle varie posizioni politiche avverrebbe in Parlamento con la costituzione dei gruppi parlamentari (da molti partiti a pochi gruppi, il contrario di quello che avviene ora dai pochi “listoni-insalata” a molti gruppi). Basterebbe che il compito di esprimere il governo fosse attribuito al gruppo maggioritario della Camera. A questo gruppo (e al suo omologo del Senato, anche se non maggioritario) verrebbe attribuito un voto pesante, opportunamente calcolato, per garantire la governabilità (si privilegia il gruppo della Camera perché rappresentativo di una platea più vasta di elettori).

Una legge elettorale impostata su questi principi (vedere la proposta in testa al blog) renderebbe di fatto inutile effettuare “le primarie”, in quanto queste sarebbero un tutt’uno con le elezioni vere e proprie. Sarebbero elezioni con “primarie embedded”.


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Il punto di vista, magari irrilevante e sbagliato, di un cittadino qualunque, confidente nella libertà, detentore saltuario della sovranità, indotto a cederla, nell’occasione, a rappresentanti per niente fidati.

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