martedì 23 giugno 2009
Referendum: fallimento o ineluttabilità
Luca Ricolfi (su Panorama N.26 del 25 giugno 2009) ha calcolato che “il partito del disincanto”, al netto di quanti si astengono per forza maggiore, ammonta oramai a più del 30%. Considerando che alle elezioni europee del 7 giugno scorso (votanti 65,05%) il Pdl in termini di aventi diritto al voto ha ottenuto il 22,9% ed il Pd il 17%, si vede che il partito di chi sceglie di non andare a votare è il più grande di tutti, più o meno 15.000.000 di persone.
Chiamarlo partito è improprio. E’ piuttosto un serbatoio di voti congelati di gente schifata (spesso per sacrosante ragioni) dalla politica, che fa una scelta radicale e rinuncia alla maggiore espressione del diritto di cittadinanza: il voto.
Alle elezioni europee del 7 giugno scorso ha votato il 65,05% degli elettori.
La Lega Nord ha avuto il 10,20% dei voti espressi, cioè il 6,63% degli aventi diritto.
Il referendum, pertanto, è partito con un capitale massimo di possibili elettori del 58,87% di fronte al 50% più UNO necessari per raggiungere il Quorum.
A quelli della Lega Nord occorre aggiungere gli elettori convinti dal “Comitato amici della Costituzione per l’astensione al referendum”. Per quanti pochi siano stati (1%?) il tesoretto di cui potevano disporre i sostenitori del referendum era minore di un misero 7%.
La maggioranza degli elettori non fa certamente questi calcoli, ma in qualche misura li intuisce. Se aggiungiamo che si è scelta ad arte la data del primo giorno d’estate, non meraviglia che molti elettori si siano convinti dell’inutilità del loro voto fino al punto che neanche la loro metà (il 23%) si è recato ai seggi.
Con questo stato di cose i pifferai dell’astensione non hanno bisogno di nessun flauto magico, o mistico, per rendere nullo un referendum. E’ un esito ineluttabile e non un fallimento clamoroso come sostiene la Lega Nord.
E’ il meccanismo che non è più adeguato alla situazione italiana.
Supponiamo che per attraversare un incrocio occorrano quattro secondi: il verde del semaforo sarà fissato attorno a sei secondi. Se, per qualsiasi motivo, la strada fosse allargata tanto da comportare un tempo d’attraversamento di sei secondi, un assessore alla mobilità farebbe correttamente cambiare il tempo del verde ad otto secondi.
Chi è che dovrebbe adeguare il meccanismo del referendum per renderlo operante? Il Parlamento, ovvio. Ma il Parlamento è in mano ai partiti che se ne guardano bene dal farlo. Per i politici meno voce hanno gli elettori e meglio è. Si lascia alla gente il minimo di parola, quella appena sufficiente a tenere in vita il simulacro della sovranità del popolo attraverso elezioni ogni tot anni.
L’elettorato attivo rimane stretto fra il partito dell’astensione e la casta.
L’articolo 75 della Costituzione italiana che sancisce l’istituto del referendum rimane, comunque valido. Basterebbe una leggina di tre articoli per riportarlo a nuova vita:
1 - il quorum, stabilito di volta in volta dalla Corte Costituzionale, è uguale alla metà della percentuale dei votanti delle precedenti elezioni per la Camera dei deputati;
2 - la scheda è unica e riporta i quesiti dei diversi referendum in forma di semplici domande formulate dalla Corte Costituzionale;
3 - tutti i referendum si tengono nella giornata delle elezioni per la Camera dei deputati.
Chiamarlo partito è improprio. E’ piuttosto un serbatoio di voti congelati di gente schifata (spesso per sacrosante ragioni) dalla politica, che fa una scelta radicale e rinuncia alla maggiore espressione del diritto di cittadinanza: il voto.
Alle elezioni europee del 7 giugno scorso ha votato il 65,05% degli elettori.
La Lega Nord ha avuto il 10,20% dei voti espressi, cioè il 6,63% degli aventi diritto.
Il referendum, pertanto, è partito con un capitale massimo di possibili elettori del 58,87% di fronte al 50% più UNO necessari per raggiungere il Quorum.
A quelli della Lega Nord occorre aggiungere gli elettori convinti dal “Comitato amici della Costituzione per l’astensione al referendum”. Per quanti pochi siano stati (1%?) il tesoretto di cui potevano disporre i sostenitori del referendum era minore di un misero 7%.
La maggioranza degli elettori non fa certamente questi calcoli, ma in qualche misura li intuisce. Se aggiungiamo che si è scelta ad arte la data del primo giorno d’estate, non meraviglia che molti elettori si siano convinti dell’inutilità del loro voto fino al punto che neanche la loro metà (il 23%) si è recato ai seggi.
Con questo stato di cose i pifferai dell’astensione non hanno bisogno di nessun flauto magico, o mistico, per rendere nullo un referendum. E’ un esito ineluttabile e non un fallimento clamoroso come sostiene la Lega Nord.
E’ il meccanismo che non è più adeguato alla situazione italiana.
Supponiamo che per attraversare un incrocio occorrano quattro secondi: il verde del semaforo sarà fissato attorno a sei secondi. Se, per qualsiasi motivo, la strada fosse allargata tanto da comportare un tempo d’attraversamento di sei secondi, un assessore alla mobilità farebbe correttamente cambiare il tempo del verde ad otto secondi.
Chi è che dovrebbe adeguare il meccanismo del referendum per renderlo operante? Il Parlamento, ovvio. Ma il Parlamento è in mano ai partiti che se ne guardano bene dal farlo. Per i politici meno voce hanno gli elettori e meglio è. Si lascia alla gente il minimo di parola, quella appena sufficiente a tenere in vita il simulacro della sovranità del popolo attraverso elezioni ogni tot anni.
L’elettorato attivo rimane stretto fra il partito dell’astensione e la casta.
L’articolo 75 della Costituzione italiana che sancisce l’istituto del referendum rimane, comunque valido. Basterebbe una leggina di tre articoli per riportarlo a nuova vita:
1 - il quorum, stabilito di volta in volta dalla Corte Costituzionale, è uguale alla metà della percentuale dei votanti delle precedenti elezioni per la Camera dei deputati;
2 - la scheda è unica e riporta i quesiti dei diversi referendum in forma di semplici domande formulate dalla Corte Costituzionale;
3 - tutti i referendum si tengono nella giornata delle elezioni per la Camera dei deputati.
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