Riportando queste zone sul diagramma delle fasce di reddito possiamo vedere – permettetemi di usare per un attimo un linguaggio figurato- la lama del fisco penetrare nella carne viva della fascia più numerosa dei contribuenti (e chi impugna il coltello abita ai piani alti, al disopra dei 100.000 euro). Circa l’OTTANTAQUATTRO per cento non ci guadagna nulla, molti di questi pagano quattro punti in più. Soltanto un dodici per cento circa, al di sopra dei 26000 euro, risparmia qualcosa.
Una riforma del fisco, fatta da governanti seri, deve essere ben altro.
Si deve considerare il mutato potere d’acquisto dell’euro.
Il primo gennaio 2002 l’euro valeva 1936,27 lire. Oggi vale 1000 lire.
Lo sa bene chi guarda le offerte promozionali in TV dove gli alfieri della massima convenienza, Giorgio Mastrota e Patrizia Rossetti, offrono a 436 euro materassi matrimoniali che cinque anni fa costavano 450 mila lire e a 298 euro batterie di pentole che allora costavano 300 mila lire.
Un appartamento che costava –a Bologna- 230 milioni di lire, oggi costa 230 mila euro.
Confrontando il diagramma dell’Irpef in vigore per l’ultima dichiarazione in lire con quello oggi proposto, dove si è considerato il cambio in lire secondo l’attuale potere d’acquisto, notiamo che lo scaglione di reddito con l’aliquota più alta parte da 75 milioni di lire, mentre nel 2002 partiva da 135 milioni. L’aliquota del 38% parte da 28 milioni mentre quella del 39% partiva da 60 milioni.
Sono cose che possono succedere in un paese “normale”?
In un paese normale sarebbe auspicabile che, nel determinare un’equilibrata “politica dei redditi”, anche la pressione fiscale fosse calibrata sul potere d’acquisto dei contribuenti. Il diagramma della nuova Irpef, pertanto, doveva essere ridisegnato come nel grafico riportato qui sotto.
Si può obiettare che, purtroppo, anche i costi dello stato sono raddoppiati.
I costi della politica sicuramente. Gli stipendi dei dipendenti pubblici sono un pò aumentati ma, certamente, non raddoppiati. Ad esempio, quelli degli infermieri nella sanità, degli insegnanti nella scuola o dei poliziotti. Le pensioni sicuramente non sono aumentate: chi riscuoteva DUE MILIONI di lire, oggi riscuote 1033 euro, cioè UN MILIONE di lire (e il problema delle pensioni in atto è già risolto per metà).
Nel frattempo, con il passaggio all’euro, le aziende hanno aumentato i loro utili
(vedere questo post), lo Stato ha incrementato le entrate fiscali e l’Inps, anche se in misura minore, i contributi.
Il ritornello è sempre quello: se non si vuole smantellare il welfare tutte queste tasse sono inevitabili.
Nel frattempo è sempre più avvertita l’esigenza di riforme strutturali (pensioni, sanità, pubblico impiego e finanza locale). Ben vengano. Ma se la gente, ad esempio, deve pagarsi la pensione integrativa e farsi un’assicurazione sanitaria, i soldi li deve trovare. Non si possono fare le riforme e, contestualmente, conservare un fisco da stato scandinavo. Occorre riformare anche il fisco, riducendo le tasse.
Altrimenti bisognerà prendere atto che l’introduzione dell’euro, anche se in tanti l’abbiamo accolta con orgoglio e con entusiasmo, dopo cinque anni si è risolta nel più grande caso d’inflazione della storia repubblicana e nel più grande fiscal drug da quando esiste l’Irpef.
Nei prossimi anni le elezioni si giocheranno sempre più sul tema delle tasse e del federalismo fiscale. Agli elettori non interessa più di tanto sapere che nome avrà il “partito nuovo”, che “indietro non si torna”, che “senza le ali non si vola”, che “il cantiere è già aperto”, dove andranno a sedersi gli eletti a Bruxelles o di quante pagine sarà “il manifesto del Partito Democratico”.
L’impostazione di questa finanziaria dimostra che per ora ha prevalso il secondo. Soltanto che invece di ritrovarci un welfare di tipo scandinavo ce ne troviamo uno da socialismo reale: in Unione Sovietica facevano la fila per il pane, in Italia facciamo la fila per l’esame del sangue.
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