IL BLOG DI SERGIO VIVI



sabato 4 settembre 2010

L'Italia futura - 2

L’argomento più consistente addotto, nei giorni scorsi, contro il ritorno alle urne in autunno è che, in quei mesi, sono in scadenza circa 80 miliardi di titoli a lungo termine ed altri 150 nel 2011 (Alessandro Penati su Repubblica del 21 agosto) che il Tesoro dovrà rifinanziare. In caso di crisi di governo, la speculazione internazionale ci farebbe a pezzi, assicurano gli esperti. Anche perché è aumentata la quota del debito pubblico allocata all’estero: a partire dal 2005, i NON residenti detengono oltre il 50% del debito (mentre nel 1998 i residenti in Italia ne detenevano ancora il 71% e nel 1991 addirittura il 94%).

Questo motivo richiama all’attenzione il più grave problema del Paese: l’enorme debito pubblico accumulato negli anni 80 e 90, e accresciuto, nell’ultimo decennio, anche a causa della crisi economica globale. Siamo arrivati attorno a 1.820 miliardi di euro di debito.

Una ricostruzione autorevole della serie storica del debito (in percentuale del PIL) è disponibile in questo studio, dell'ottobre 2008, sul sito della Banca d’Italia.
La figura 5 «mostra che l’Italia è stata ed è un paese con un debito pubblico elevato. Gli anni in cui il debito è stato superiore al prodotto non sono casi isolati. Su 147 osservazioni l’incidenza del debito delle Amministrazioni pubbliche sul PIL è stata superiore al 100 per cento in 53 anni; ha superato il 60 per cento in 108 casi. Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, caratterizzato dal miracolo economico e da un peso del debito in media ben al di sotto del 35 per cento, appare infatti come un’eccezione».




«La scomposizione del debito fra interno ed estero aiuta a chiarire la dinamica sottostante i due rilevanti episodi di repentino aggiustamento seguiti ai conflitti mondiali (fig. 5). Mentre nel caso degli anni che seguirono la prima guerra mondiale, il venir meno del debito estero prebellico (che fu in parte significativa condonato - nel 1925 i debiti nei confronti del Governo degli Stati Uniti furono ridotti di circa i 4/5, nota 45-) spiega in parte rilevante il crollo osservato negli anni venti e nei primi anni trenta, la drastica riduzione del peso del debito (quasi integralmente interno) realizzata alla fine della seconda guerra mondiale è invece attribuibile principalmente all’elevatissima inflazione».

La fase di forte accumulazione di debito pubblico che inizia intorno al 1964 e, senza arrestarsi, continua fino a raggiungere il massimo nel 1994 è dovuta principalmente alla creazione dello Stato sociale per opera, prima, dei governi quadripartito e, successivamente, di quelli del centrosinistra.

Sintomatica questa confidenza del Presidente emerito Francesco Cossiga, ricordata nei giorni delle sue esequie: «In nome della carità e della solidarietà ho sbagliato. Credevo che la politica economica dello stato dovesse ricalcare le linee della San Vincenzo. Abbiamo scambiato la solidarietà con lo spreco. La solidarietà con l'inefficienza. Pensavamo che i soldi non sarebbero finiti mai» (Ceccio da Chiaramonti, L’eterno provocatore, Gian Antonio Stella, 18 agosto 2010 Corriere della Sera.it).

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La questione del welfare va vista nell’ottica della classica contrapposizione destra – sinistra (una diade che tuttora sopravvive, come ha spiegato Norberto Bobbio in “Destra e Sinistra”, cap. III).
Compito di un governo di sinistra è di costruire una società più giusta attraverso il potenziamento dei servizi sociali, la tutela dei lavoratori, il sostegno alle fasce più deboli e la tutela dei diritti fondamentali. Quindi più tasse al fine di assicurare più servizi alla collettività e conseguentemente più uffici e più personale pubblico. Il modello è quello "universalistico". I diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza.
Un governo di destra, invece, si propone d’intervenire il meno possibile nell’economia e nella società. Sostiene la teoria dello stato minimale: poche tasse, servizi sociali ridotti all’osso, contratti di lavoro meno vincolanti per le imprese.
Il modello viene spesso definito “residuale”, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior parte della società, i servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi.

Nessun dubbio che, di fronte alla domanda su quale sistema preferiscano, la maggior parte delle persone opti per la prima soluzione. Salvo rendersi conto, una volta di fronte alle inefficienze, che non è tutto oro quello che i politici cercano di far luccicare. Occorrerebbero sempre più risorse, quindi più tasse.
Nella storia di un popolo si alternano periodi (che possono durare anche molti anni) nei quali predomina la politica della spesa pubblica, ed altri in cui occorre mettere un freno perché, nonostante le alte tasse, il sistema è diventato insostenibile oltre che inefficace ed inefficiente. Quello attuale, è uno di questi. Tutti i commentatori politici riconoscono che non possiamo più permetterci questi livelli di welfare: è giunto il momento di sottoporre lo stato sociale a dieta forzata. Se non altro, per il doveroso rispetto del patto di solidarietà tra le generazioni.

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A chi aspetta il compito di abbattere il debito pubblico?

A chi governa, ovviamente.
La sinistra ha le sue ricette. Si può ridurre il debito senza minare lo stato sociale. L’elenco degli strumenti è nutrito: eliminazione degli sprechi, lotta all’evasione fiscale, tasse più alte per i ricchi, diminuzione dei costi della politica e, dulcis in fundo, praticare la virtù dell’avanzo primario.
Tutti provvedimenti che, presi uno per volta, non bastano. Molti dei quali con risultati non prevedibili né misurabili. Da perseguire in ogni caso allo scopo di abbattere il deficit (impresa più facile), di rilanciare l’economia e lo sviluppo e, contestualmente, diminuire le tasse per le persone e le imprese.
Per raggiungere l’obiettivo –senza praticare tagli- il centrosinistra dovrebbe vincere le elezioni per i prossimi settant’anni ma non è detto che, prima, lo stato sociale italiano imploda come l’Urss di Breznev. Le cause, naturalmente, non sarebbero imputabili al centrosinistra che, anzi, troverebbe sicuramente il modo per menare vanto di avere evitato “il peggio”.

Il compito si addice di più ad un governo di destra. Ma quale destra?
Riesce difficile paragonare il governo Berlusconi (con il Pdl dominato da ex socialisti) al nuovo governo lib-con di David Cameron. Questi, per ridurre l’enorme indebitamento del Regno Unito, ha già messo in atto una rigorosa analisi della spesa pubblica in tutti i suoi dettagli (Spending Review) e sta operando una serie di tagli (soprattutto tra quegli eccessi di spesa ormai dati per scontati come se fossero a tutti gli effetti parte integrante dell’organizzazione statale) con lo scopo primario di dare maggiore potere e controllo ad ogni singolo cittadino sulla propria vita. «Il governo lib-con punta poi a ridisegnare, con i servizi, anche il sistema di welfare individuando nei privati e nelle associazioni i soggetti adatti ad occuparsi, oltre che di istruzione ed ospedali anche di funzioni eminentemente sociali, come ad esempio il ri-collocamento dei disoccupati ed il recupero dello svantaggio sociale». (Simona Bonfante su Libertiamo, 20 agosto 2010)

Il centrodestra italiano minimizza e professa ottimismo. I mercati sanno che i creditori dello Stato italiano sono per il 50% (il bicchiere mezzo pieno) i suoi cittadini e che una considerevole porzione degli interessi pagati dallo Stato resta in famiglia. Sanno infine che in Italia, a confronto di quanto accade in altri Paesi, la percentuale del risparmio è elevata. Le periodiche emissioni di bond vengono bene accolte dai mercati e la domanda è generalmente superiore all’offerta. A ridurre il debito, dicono, ci penseremo quando il Paese ricomincerà a crescere.

Per anni, la classe politica –tutta- non ha fatto altro che rimuovere l’incubo del debito. Continua a starsene cinicamente seduta sulla riva del fiume, sperando che qualcuno arrivi a condonarci parte del debito come fece il governo americano nel primo dopoguerra, oppure nell’attesa che nella zona euro (e negli Usa) arrivi una provvidenziale inflazione, tassa certamente iniqua ma in buona parte «invisibile » e in larga misura pagata dai detentori esteri. Inflazione che non potrebbe essere strisciante anno dopo anno, ma che dovrebbe avvenire di colpo ed essere elevatissima, per produrre l’effetto desiderato di far crollare il debito. Sempre ammesso che gli investitori esteri, per i quali rimaniamo “sorvegliati speciali”, stiano a guardare. Si rischia che, prima dell’inflazione, arrivi il default del Paese. Soprattutto in ragione dell’esposizione verso l’estero, il debito pubblico rimane una spada di Damocle, che blocca lo sviluppo e che sta già ricadendo sui giovani nati dopo il 1978.

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Un’opportunità potrebbe essere rappresentata dalle novità che stanno accadendo in questi giorni, con l’eventuale nascita del partito di Gianfranco Fini, visto dai suoi sostenitori come il « tentativo di elaborare un polo “nuovo” (più che terzo) che si prefigga di contendere al “primo” l’appalto della rappresentanza liberal-democratica dell’elettorato. Un modello Cameron-Clegg, per intenderci». (Simona Bonfante su Libertiamo, 16 agosto 2010)

Mentre il suo esponente più “liberal” scrive: «Alla fine del percorso, Fini oggi sostiene – proprio sui temi “sensibili” dei diritti, dell’immigrazione, della bio-politica e dell’identità civile – posizioni più vicine di quelle berlusconiane al mainstream liberal-conservatore europeo.
…………..
Perfino sui temi economici – che rappresentavano il “cuore” della promessa berlusconiana – Fini raggiunge una posizione mediana tra la difesa dell’interesse e della coesione nazionale e la necessaria modernizzazione del modello economico-sociale di un paese che non cresce quanto i suoi concorrenti. Nel frattempo Berlusconi perde la gran parte della sua forza “rivoluzionaria”, in un traccheggio sparagnino, ma diffidente delle vere riforme (quelle che potrebbero costare consenso, ma dare fiato ad un paese in affanno).
Oggi è il PdL di Berlusconi, attraverso il legame a doppio filo elettorale e soprattutto politico con Bossi, ad essere vicino al “Dio, Patria e famiglia” del reazionario Le Pen e delle destre anti-liberali. Fini invece ha oggi – proprio sui temi che lo renderebbero “estraneo” al PdL – idee e proposte più consonanti con quelle di Cameron, Merkel, Rajoy o Sarkozy, cioè di quella destra popolare e conservatrice che ‘contiene’ i liberali o governa con essi». (Della Vedova su Libertiamo, 25 agosto 2010)

Per la maggioranza dei commentatori, però, contro la possibilità di fare una politica di destra moderna e liberale, giocherebbe la necessità di Fini di raccogliere voti. Impresa difficile e possibile solo al Sud, a patto di permettere a questa parte d’Italia di perpetuare i propri vizi, si tratti dei costi della politica locale o dei dissesti della sanità regionale. La divisione non è tra Destra e Sinistra, ma tra Nord e Sud. Tra due concezioni diverse del Federalismo che, se non trovano una sintesi, mettono a rischio l’unità della Nazione.

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Pare che, in nome dell’unità nazionale, dovremo tenerci il debito.
È possibile che non esista un punto d’equilibrio per assicurare efficienza e tutelare l’unità nazionale? Dobbiamo proprio lasciare che il Paese rischi il default?

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