IL BLOG DI SERGIO VIVI



giovedì 11 giugno 2009

Nato sotto il segno della Radiomarelli

Dal 1930 al 1940 ci fu un gran fervore di studi intorno alla radiotelegrafia in Italia, che poteva contare su scienziati di livello internazionale. Continuava i suoi esperimenti Guglielmo Marconi. A Torino era in piena attività il Laboratorio Ricerche dell’EIAR. Al Regio Istituto Elettrotecnico e delle Comunicazioni dell’Accademia Navale di Livorno, il professor Ugo Tiberio –dopo uno stop and go imposto dall’ottusità di chi decideva- realizzava il radar Gufo per la Marina Militare.
La società milanese SAFAR, diretta dall’ingegner Arturo V. Castellani, produceva –in anticipo sui tempi- piccole serie di televisori a scansione meccanica, basata sul disco di Nipkow.

Un’altra azienda che entrò nel settore fu la Fabbrica Italiana Magneti Marelli.
La FIMM, negli anni 20 e 30 era partner, per l’Europa, dell’americana Bosch Magneto Corporation nel settore della componentistica per auto. Quando la Bosch, nel 1925 iniziò la produzione di radio, creando la divisione American Bosch Radio, la Marelli dapprima ne distribuì i prodotti in Italia poi, nel 1929, si mise in proprio e fondò la Radiomarelli. Più tardi, per ovviare ai dazi e alle tasse che gravavano sulle valvole, fondò la FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche).

All’interno della Magneti Marelli fu creato il Laboratorio Centrale Radio che, intorno alla metà degli anni trenta, oltre alle apparecchiature riceventi, si dedicò allo studio dei mezzi di diffusione del segnale. Francesco Vecchiacchi, già allievo e collaboratore di Giancarlo Vallauri, è considerato il pioniere dei ponti radio. Sotto la sua direzione, fu progettata e realizzata la prima campata del ponte ad onde corte Milano-Monte Cimone, tratta prolungata poi fino al Terminillo e quindi a Roma. Il ponte, dopo la fine della guerra, fu rimesso in efficienza, ampliato e migliorato tanto da far "passare" ben sette comunicazioni telefoniche simultanee.

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Ho raccolto queste essenziali notizie perché, qualche giorno fa, ho ritrovato in fondo ad un cassetto alcuni vecchi documenti della radio che conservo ancora, come un cimelio, in un angolo della sala.
L’apparecchio fu acquistato da mio padre il capodanno del 1934, esattamente 67 giorni prima della mia nascita, nella bottega di Vasco Bettelli, sotto i portici di Piazza Piccola a Sassuolo, alla sinistra guardando il Campanone.
Il core business della ditta era, allora, “elettricità, idraulica, termosifoni”. Per questo considerò naturale estendere la vendita a queste nuove meraviglie della tecnologia.


Il modello è il Damayante della Radiomarelli (cliccare sulla foto per vedere le altre immagini).
Nei primi tempi l’altoparlante era esterno alla radio. Quando si decise d’incorporarlo, il mobile della radio assunse la forma di una consolle: anche la Damayante aveva questa struttura, così come l’aveva il modello Bosch 48 degli americani. Come si può vedere, però, nella Damayante risalta già il design italiano.

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La radio, secondo i miei ricordi da bambino, era stata posta accanto ad una finestra nell’ampio locale dove di giorno si viveva, di fianco alla parete dove si trovava la cucina economica.
Immagino che possedere la radio in quegli anni desse le stesse sensazioni che si è provato, in seguito, con l’avvento della televisione e d’internet oggi.
Si potevano ascoltare, comodamente in casa, le canzonette del Trio Lescano e d’Alberto Rabagliati, le puntate dei Quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, il giornale radio e, soprattutto, i concerti sinfonici e le opere liriche. Mio padre era un appassionato melomane (assieme alla mamma, era solito frequentare “le stagioni” del Comunale di Reggio o di quello di Modena). Nella libreria, assieme alla Divina Commedia illustrata da Gustavo Dorè e alle pubblicazioni del Touring Club Italiano, aveva collezionato, disposti in bell’ordine, circa duecento libretti d’opera, per lo più editi da Ricordi.
A partire dal 1940 l’ascolto di Radio Londra, in seconda serata, divenne per tanti italiani un seguitissimo approfondimento del giornale radio.
Fu soltanto nei primi anni del dopoguerra che io presi piena coscienza della presenza della radio: le mie trasmissioni preferite erano Botta e Risposta, condotta da Silvio Gigli, e i concerti di musica leggera con l’orchestra di Pippo Barzizza.

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Avrò avuto dodici anni quando, volendo sapere come funzionasse quella scatola magica, andai a leggere tutti i capitoli del “Libro delle invenzioni” sull’Enciclopedia dei Ragazzi Mondadori, senza però riuscire a soddisfare la mia curiosità. Fu anche per questo motivo che, dopo il liceo, m’iscrissi ad Elettrotecnica Correnti Deboli che comprendeva i corsi di Radiotecnica e di Telecomunicazioni.
Terminati gli studi, dopo aver risposto a diversi annunci del Corriere ed aver affrontato alcuni colloqui, mi ritrovai a lavorare, negli anni sessanta, in un’azienda di telecomunicazioni di Cassina de’ Pecchi.
Si trattava della GTE Italia, sussidiaria dell’americana General Telephon and Electronics che aveva acquisito la Divisione Ponti Radio della Magneti Marelli continuandone l’attività.

Nell’ambito del Laboratorio Centralizzato “Francesco Vecchiacchi” fui inserito, ultima ruota del carro, nel gruppo che lavorava al progetto del “paramp” cioè dell’“amplificatore parametrico” impiegato per ricevere il segnale proveniente dai satelliti di telecomunicazione. Caratteristica rilevante: per aumentare il rapporto segnale-disturbi il paramp era tenuto al freddo all’interno di un contenitore pieno d’azoto liquido. I primi esemplari furono installati presso la stazione Telespazio nella conca del Fucino (per telecomunicazioni civili), ma anche presso le basi militari degli americani, situate lungo il tropico del Cancro (ad es. in Birmania), che spiavano l’Unione Sovietica.

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Nel 1934 la Damayante costò milleseicento lire. Oggi un televisore LCD 40” Full HD, con digitale terrestre incorporato, costa intorno a 1500 euro. Se è vero che lo stipendio medio di un comune mortale ammontava, a quei tempi, a circa 300 lire, ne consegue che, mentre la TV oggi costa circa uno stipendio e mezzo di un lavoratore precario, allora occorrevano più di cinque stipendi per la radio.
Negli anni trenta non esisteva l’IVA: sulle ricevute soltanto marche da bollo da venti e cinquanta centesimi. Chissà come faceva il Duce a far quadrare i conti senza incassare l’Iva? Forse tenendo accesa la luce del suo ufficio per tutta la notte.

Può sembrare che, allora, la vita fosse più cara. L’esempio della radio non è però il più appropriato: nel ‘34 gli abbonati alla radio in Italia erano solo 300.000 contro i 4 milioni della Gran Bretagna. In genere, una famiglia riusciva a vivere contando soltanto sul reddito dell’uomo, mentre la donna curava la casa (lavorando almeno quanto l’uomo o di più). L’organizzazione domestica se n’avvantaggiava e la vita era meno stressante. Oggi una famiglia, per tirare avanti, deve avere due stipendi: è vero che la donna “si realizza”, ma non è libera di scegliere se farlo o no.

Negli anni 30, le necessità erano diverse e lo erano anche i consumi. Nella mia famiglia, ad esempio, non si andava in ferie ma, tutti gli anni, si faceva il vino e s’ingrassava il maiale.
In autunno –ed era una gran festa- nel cortile di casa arrivavano i contadini con i loro carri, si pigiava l’uva e si metteva il vino a fermentare in due grossi tini (uno per il bianco, l’altro per il rosso) posti in cantina. Poi, con la luna giusta s’imbottigliava. Con l’occasione si rimboccava con nuovo mosto cotto la botticella più grande dell’aceto balsamico, dalla quale era stato spillata una parte del prodotto per passarla, in successione, nelle botticelle più piccole.
Un’altra festa era quando si uccideva e lavorava il maiale per ricavarne prosciutti e salumi vari.
Il vino si beveva (a noi bambini era concesso assaggiarlo), ad esempio, mangiando prosciutto affettato a mano accompagnato dallo gnocco fritto o dalle strie. Un’alternativa ai salumi era un patriottico insalatone tricolore: peperone verde, cipolla e pomodoro. La vigilia di Natale, il mattino, si apriva la spongata di Brescello e, a cena si mangiava il risotto con la trifola. Agli ospiti si offriva nocino e sassolino. Mio padre praticava anche la caccia (possedeva due doppiette). Nella camera buia che fungeva da dispensa c’era sempre una scorta di bottiglie d’olio d’oliva (acquistato da una rinomata azienda ligure), sacchi di pasta, sacchetti di sfoglia all’uovo tirata a mano da mia madre, farina, zucchero, caffè …

A cambiarci la vita furono lo scoppio della guerra ed il trasferimento a Bologna, dove la mamma, rimasta vedova, aveva trovato un impiego. Niente più vino: non c’era più il cortile con le aiuole di fiori e neppure la gran cantina col soffitto a volte. Niente più maiali da ingrassare. Vendute le doppiette Beretta. Interrotto, al settimo anno mi pare, l’invecchiamento dell’aceto balsamico: non c’era più il solaio.
Le scorte residue –diventate clandestine, perché considerate accaparramento- alleviarono la fame del terribile 1942.
Ci era rimasta la Radiomarelli.

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Un giorno imprecisato, sicuramente quando il caffè al bar costava 30 lire, vendetti i libretti d’opera a 35 lire l’uno al mio amico Paolo, appassionato d’opera lirica, che lavorava alla Weber. Oggi quest’azienda non costruisce più carburatori (sette milioni quelli prodotti nel 1992), ma centraline elettroniche per auto, dopo essere stata acquisita … da chi? Dalla Magneti Marelli. Lo stabilimento si trova a cento metri da casa mia.


 

Il punto di vista, magari irrilevante e sbagliato, di un cittadino qualunque, confidente nella libertà, detentore saltuario della sovranità, indotto a cederla, nell’occasione, a rappresentanti per niente fidati.

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